


QUADRO MACROECONOMICO
STATI UNITI ed EUROPA
Negli Stati Uniti si conferma un quadro di crescita moderata, scarsità di risorse inutilizzate, soprattutto sul mercato del lavoro, con pressioni salariali e inflazionistiche contenute. L’economia della zona euro ha mostrato, invece, un rallentamento della crescita: la decelerazione è in parte imputabile a una minore domanda estera e ad altri fattori che dovrebbero rivelarsi temporanei.
STATI UNITI
Dopo gli ultimi due trimestri in forte crescita a 4,2% t/t ann. e 3,5% t/t ann. rispettivamente, l’espansione è prevista convergere verso ritmi più moderati, intorno al 3%, sul finale d’anno prima di rallentare ulteriormente a partire dal 2019.
I risultati delle elezioni di mid-term negli Stati Uniti hanno confermato le attese, con la Camera che è tornata sotto il controllo dei Democratici mentre i Repubblicani hanno mantenuto la maggioranza al Senato.
Sul fronte occupazionale, l’employment report di novembre ha confermato il quadro che si è andato a delineare nel corso dell’anno, ovvero di un mercato del lavoro solido, senza segnali di significativo surriscaldamento e caratterizzato da una costante crescita occupazionale, diffusa ai principali settori, frenata solo modestamente dalle conseguenze dell’uragano Florence. Il tasso di disoccupazione si è confermato al 3,7%, come nei due mesi precedenti, a fronte di una stabilità del tasso di partecipazione (62,9%) e di un modesto rafforzamento della dinamica salariale (+0,2% m/m).
Si prevede un ulteriore rialzo dei tassi nella prossima riunione Fomc del 19 dicembre (attuale range 2-2,25%) ma, a partire dal 2019, con l’avvicinarsi dei tassi alla neutralità, saranno i dati economici a guidare le mosse future, sia in termini di velocità che in termini di punto di arrivo.
EUROPA
Le stime del PIL relative al terzo trimestre hanno confermato i segnali emersi dagli indicatori anticipatori e dai deboli dati economici che si sono susseguiti durante l’estate. La seconda rilevazione ha infatti evidenziato un rallentamento dell’espansione allo 0,2% t/t (1,6% a/a) dallo 0,4% t/t (2,2% a/a) dei tre mesi precedenti.
Sul fronte dei prezzi, a novembre l’inflazione headline è scesa di due decimi al 2% a/a, mentre quella core è passata dall’1,1% all’1% a/a di ottobre. La dinamica sottostante resta nel complesso debole. Dai verbali della riunione della BCE di ottobre emerge il riconoscimento da parte dei membri del Consiglio della debolezza dei dati
economici rilasciati nelle settimane precedenti l’incontro. Nell’ultima riunione dell’anno, tenutasi il 13 dicembre, Mario Draghi ha annunciato che il QE terminerà con la fine del 2018, come ampiamente atteso, ma che il reinvestimento dei titoli in scadenza continuerà ancora a lungo, anche dopo il primo rialzo dei tassi, che non avverrà prima della fine dell’estate 2019.
OUTLOOK
CRESCITA ECONOMICA
L’espansione globale ha già raggiunto il suo picco e nei prossimi anni dovrebbe entrare in una fase di decelerazione con ampia
dispersione dei tassi di crescita sia fra i Paesi sviluppati che fra quelli emergenti; alcune isolate economie potrebbero entrare in
recessione.Nel breve periodo politiche fiscali ancora espansive e un robusto mercato del lavoro continueranno a supportare la domanda domestica. Le condizioni finanziarie dovrebbero tuttavia divenire meno favorevoli mentre gli effetti dell’applicazione delle tariffe continueranno a influire negativamente sul commercio internazionale e a frenare la spesa per investimenti. Proprio a seguito di tali evidenze, di recente, i principali organismi internazionali hanno rivisto al ribasso le previsioni di crescita per il 2018 e il 2019 per la maggior parte delle economie mondiali. La politica fiscale USA inizierà a sottrarre slancio all’economia americana verso la fi ne del 2019 per esplicare appieno i propri effetti a partire dal 2020; una politica monetaria restrittiva ma con rialzi dei tassi di interesse più graduali potrà tuttavia rallentare la velocità di decelerazione verso il trend di crescita potenziale. In Europa, nonostante la ripresa sia stata successiva a quella degli Stati Uniti, già nel 2018 sono emersi segnali di rallentamento che dovrebbero confermarsi anche nel 2019 quando l’introduzione delle tariffe sugli scambi commerciali peserà maggiormente sull’attività economica e la BCE avrà definitivamente concluso il QE. L’Europa sta già sopportando il peso (economico e sulle attività finanziarie) della Brexit e della fragile disciplina fiscale italiana, e risulta particolarmente vulnerabile ai rischi geopolitici globali. La crescita dei Paesi emergenti, pur rivista al ribasso, nel 2019 dovrebbe nel complesso mantenersi in linea con quella dell’anno in corso. Scenario meno brillante per le economie dell’America Latina, in particolare per l’Argentina.
La Cina dovrebbe rallentare sulla scia della più contenuta espansione del credito e per le crescenti barriere commerciali. Nuove evidenze del rallentamento sono emerse con i dati delle vendite al dettaglio e della produzione industriale di novembre. Tuttavia, misure di stimolo e condizioni finanziarie più accomodanti da parte della Banca centrale cinese potranno comunque aiutare a guidare il rallentamento verso un atterraggio morbido a condizione di non aggravare i rischi di stabilità finanziaria.
In Giappone, nonostante una revisione al ribasso della crescita, le prospettive rimangono relativamente favorevoli. Il Paese risulta meno sensibile alle tensioni commerciali tra USA e Cina e dovrebbe pertanto risentire meno della decelerazione cinese. Potrebbe confermarsi come un’area più isolata tra i grandi player internazionali con condizioni interne comunque solide (bassa disoccupazione e crescita dei salari) e limitata incertezza politica.
OUTLOOK
INFLAZIONE
La pressione sui salari e sui prezzi dovrebbe continuare ad aumentare man mano che si chiudono gli ouput gap e si raggiunge la piena occupazione. Il movimento dovrebbe tuttavia essere graduale. Nelle economie sviluppate la capacità produttiva inutilizzata è ormai limitata e i tassi di disoccupazione sono sotto i livelli di pre-crisi. Stanno emergendo i primi segnali di carenza di manodopera particolarmente di lavoratori qualificati e iniziano ad allungarsi i tempi di fornitura delle merci. Tuttavia il tasso di partecipazione al lavoro rimane in alcuni Paesi inferiore ai livelli pre-crisi, in particolare negli Stati Uniti, e c’è ancora spazio per aumentare le ore lavorate in altre economie come l’Europa. Permane comunque il rischio che l’aumento dei salari possa risultare superiore alle attese, ma la misura in cui tale incremento potrà essere traslato sui prezzi finali dipende dall’andamento della produttività e dalla misura in cui le imprese saranno in grado di assorbire nei loro margini i più elevati costi del lavoro. Nelle economie sviluppate l’inflazione headline è ormai tendenzialmente prossima al 2% alimentata fino ad ora in particolare dall’aumento dei prezzi dell’energia, che in futuro dovrebbero invece portare un contributo negativo. L’inflazione core è più debole, si colloca intorno all’1-1.25%, ma è destinata a salire gradualmente al 2% nei prossimi due anni a seguito della sempre maggiore erosione della capacità produttiva inutilizzata e il progressivo aumento del costo del lavoro.
Negli Stati Uniti dove il mercato del lavoro è già più forte e l’imposizione delle tariffe sta aumentando le pressioni sui prezzi in alcuni settori, l’inflazione core potrebbe salire anche oltre il 2%. L’inflazione headline è in crescita in molte economie emergenti a seguito del deprezzamento delle valute locali e per l’aumento delle materie prime ma è attesa in riduzione per gli effetti degli interventi restrittivi delle banche centrali e per il recente crollo del prezzo del petrolio.
OUTLOOK
BANCHE CENTRALI
Nel 2018 complessivamente le Banche Centrali hanno continuato ad iniettare liquidità nel sistema finanziario e ad espandere i propri bilanci. Il 2019 potrebbe essere invece il primo anno in cui, successivamente alla crisi finanziaria del 2008, gli acquisti netti di asset da parte degli istituiti centrali dei paesi sviluppati dovrebbero diventare negativi e drenare conseguentemente liquidità dal sistema. Fra i Paesi emergenti solo interventi straordinari della PBoC potrebbero riportare in attivo il saldo della variazione della liquidità a livello globale.
Le condizioni finanziare sono quindi attese marginalmente più restrittive a livello globale, anche se la liquidità continuerà ad essere abbondante, e più critiche per le economie e i settori che più hanno aumentato la leva finanziaria negli anni di facile accesso al credito, in un mondo in cui il livello del debito è significativamente aumentato.
La focalizzazione sui specifici target interni, in un contesto macroeconomico non più sincronizzato, porterà ad aumentare la divergenza delle politiche monetarie seguite dalle principali banche centrali.
Nei Paesi sviluppati, la Fed nel 2019 dovrebbe proseguire e forse completare il previsto rialzo dei tassi di interesse ma con maggior gradualità rispetto al passato, la BCE forse solo nella seconda metà dell’anno inizierà a rialzare il tasso di riferimento; solo la Bank of Japan rimarrà sostanzialmente accomodante.
Nei mercati emergenti dovrebbero prevalere politiche monetarie restrittive, con intensità diverse, in un contesto di inflazione crescente.
Anche nel prossimo anno la PBoC potrà continuare ad utilizzare gli strumenti di politica monetaria con orientamento espansivo per affrontare i rischi di rallentamento dell’economia determinati da un ulteriore deterioramento delle relazioni commerciali con gli Stati Uniti.
OUTLOOK
AZIONI e OBBLIGAZIONI
L’atteso aumento dei costi di produzione (aumento dei salari e dei prezzi dei beni importati per eff etto dei dazi già in essere) avrà un impatto sfavorevole sui mercati azionari nel 2019 in un quanto porterà alternativamente ad una compressione dei margini di profitto o ad un aumento delle pressioni inflazionistiche, stimolo per politiche monetarie più restrittive. Se si considera l’eccesso di liquidità nel sistema finanziario come fattore anticipatore dell’andamento dei mercati azionari nei successivi 12 mesi, i livelli attualmente raggiunti da tale variabile anticiperebbero limitati ritorni dall’asset class azionaria nel 2019, peraltro tipici della fase finale del ciclo economico che normalmente si caratterizza per una elevata volatilità e per l’assenza di direzionalità.
Le prospettive di crescita degli utili dovrebbero rimanere favorevoli ma dopo aver raggiunto il picco nel 3Q18, soprattutto negli USA, dovrebbero decelerare nei prossimi mesi.
Nonostante il mercato obbligazionario sarà influenzato anche il prossimo anno da rendimenti in graduale rialzo, sulla scia della progressiva accelerazione dell’inflazione e di politiche monetarie meno accomodanti, è possibile individuare fin da ora comparti di investimento in grado di offrire una redditività interessante.
Negli Stati Uniti i titoli governativi hanno raggiunto, sul tratto breve-medio della curva, rendimenti prossimi al 3%. che, alla luce delle recenti dichiarazioni del presidente della Fed , potrebbero essere ormai vicini o poco inferiori al tasso neutrale.
In Italia, un accordo tra governo e Commissione europea sulla manovra finanziaria, volto ad evitare l’avvio della procedura di infrazione, renderebbe particolarmente interessanti le attuali quotazioni aprendo la via per un recupero, almeno fino alle elezioni europee di maggio 2019.
Anche i bond dei Pesi emergenti, dopo un periodo di forti deflussi ed elevata svalutazione delle divise locali, presentano ora un carry particolarmente elevato ed interessante in un contesto di maggiore stabilità valutaria e con l’attesa di più graduali rialzi dei tassi di interesse USA.
Dopo il negativo mese di ottobre, archiviatosi con cali fra il 5% e il 9% sui mercati sviluppati, novembre è stato un mese altalenante con una chiusura mista: ancora in calo l’Europa Core, mentre i Paesi Periferici, gli Stati Uniti e gli Emergenti sono riusciti a chiudere per lo più in territorio positivo. Particolarmente critica è stata la parte centrale del mese in cui gli indici sono andati vicini ai minimi relativi di ottobre sulle incertezze legate alla possibile cancellazione dell’incontro fra Trump e Xi, alle difficoltà in Europa sulla Brexit e sull’Italia e a dati macro e micro, sebbene positivi, in peggioramento.
Con una chiusura mensile di +1,8%, Wall Street si conferma come uno dei pochi mercati ancora in positivo da inizio anno a sostegno anche del buon stato di salute dell’economia e delle aziende, sebbene sembra si avvicini la parte finale del ciclo. In Europa il recupero di Spagna e Italia è stato comunque contenuto mentre Francia e Germania hanno registrato cali vicini al 2%: il mercato azionario tedesco, ricco di industrie pesanti e propenso all’export, si conferma particolarmente colpito quest’anno dalle tensioni commerciali e geopolitiche (es. dazi USA e sanzioni russe) e al momento è il peggior indice europeo da inizio anno.
I principali listini dei mercati emergenti hanno chiuso per lo più in positivo in valuta locale con guadagni fra lo 0,6% della Cina e il 5,2% e 5,9% dell’India e della Turchia. Ha fatto eccezione il Messico (−4,5%,) principalmente per l’incertezza che si è creata a seguito del referendum che ha sancito lo stop del progetto del nuovo aeroporto della capitale e sostanzialmente decretato il default sul debito emesso per il suo finanziamento.
Il ritorno finale per l’investitore basato EUR o USD è stato fortemente condizionato dall’andamento delle valute locali. con l’area asiatica in apprezzamento mentre in America Latina, ha pesato il deprezzamento oltre il 3% del real brasiliano.
A livello settoriale, le preoccupazioni di un rallentamento dell’economia globale ha premiato i settori difensivi sia in Europa che negli USA, con Utilities, Telecomm e Healthcare fra i migliori.
Il diverso stato di salute delle due economie si è riverberato nella performance dei settori industriali; quelli USA hanno comunque sovraperformato l’S&P 500 mentre quelli europei, causa le difficoltà delle industrie tedesche, hanno registrato correzioni più ampie rispetto all’indice generale. Peggior settore quello Energetico penalizzato dal calo del prezzo greggio.
L’ultimo mese è stato moderatamente positivo per il debito sovrano delle principali economie avanzate con una netta sovraperformance del governativo Italia che ha beneficiato di un’apertura dell’attuale governo a trattare nella definizione della propria manovra finanziaria 2019 con la Commissione europea al fine di evitare la procedura di infrazione. La performance dei Treasury statunitensi è stata positiva, sulla scia di qualche delusione sul fronte dei dati macro nelle ultime sedute del mese e a seguito delle dichiarazioni di Powell che, nel discorso all’Economic Club di NY, ha affermato che i tassi si trovano “appena sotto” il range neutrale. Parole che sono state immediatamente lette come una netta svolta rispetto ad inizio ottobre quando il Presidente Fed aveva affermato che mancava «ancora molto alla neutralità” e come prodromo di una Fed più accomodante nel 2019.
Rendimenti in aumento per le emissioni societarie. Il saldo mensile segnala una performance negativa sia per gli IG che soprattutto per gli HY, proseguendo il movimento partito a febbraio. Il riprezzamento effettuato negli ultimi tre trimestri ha portato gli spread sui massimi da quasi due anni, anche se ancora distanti in valore assoluto dai picchi dell’ultimo quinquennio. Per la prima volta dal 2008, il bilancio dell’anno, per ora ancora provvisorio, vede la carta a spread sia in euro che in USD segnare un ritorno totale
negativo.
Continuano i segnali di ripresa per l’obbligazionario emergente che beneficia soprattutto del recupero delle rispettive divise locali nei confronti dell’euro. La crescita si sta rivelando in rallentamento in molte aree emergenti, ma contestualmente appaiono meno pressanti alcuni rischi che sarebbero potuti divenire sistemici con un’escalation della guerra commerciale tra USA e Cina. Quotazioni petrolifere in calo. Continua a gravare sui prezzi l’incognita della crescita economica, mentre si addensano i dubbi
circa la domanda di petrolio da parte della Cina. L’eccesso di output sul mercato del petrolio e l’incertezza sul calo della produzione in Venezuela e in Iran rappresentano le cause principali del recente ribasso dei prezzi del greggio. Prosegue il recupero delle quotazioni per i metalli preziosi rispetto ai minimi registrati nei mesi estivi. Resta il tema dell’incremento delle tensioni sui mercati in un contesto di maggiore avversione al rischio